Parla la follia. I teologi.
Elogio alla follia* – 1509
Quanto ai teologi, forse meglio farei a non parlarne, evitando di suscitare un vespaio e di toccare quest’erba puzzolente, perché, altezzosi e litigiosi come sono, non abbiano ad assalirmi a schiere con centinaia di argomenti, costringendomi a fare ammenda. Se mi rifiutassi, mi accuserebbero senz’altro di eresia, questo essendo il fulmine con cui di solito atterriscono chi non gode le loro simpatie. Eppure, ancorché siano i meno propensi a riconoscere i miei meriti nei loro confronti, anche loro, e di non poco, mi sono debitori. Infatti devono a me quell’alta opinione di sé che li rende felici, come se il terzo cielo fosse la loro dimora, e li induce a guardare dall’alto in basso con una sorta di commiserazione tutti gli altri mortali, quasi animali che strisciano a terra, mentre loro, trincerati dietro un valido esercito di magistrali definizioni, conclusioni, corollari, proposizioni esplicite ed implicite, a tal segno abbondano di scappatoie da poter sfuggire anche alle reti di Vulcano con distinzioni che recidono ogni nodo con una facilità che neppure la bipenne di Tenedo possiede, inesauribili nel coniare termini nuovi e parole rare. Spiegano inoltre, a modo loro, gli arcani misteri, i criteri che sono a base della creazione e dell’ordinamento del mondo; per quali vie la macchia del peccato si è trasmessa di generazione in generazione; in che modo, in che misura e in quanto tempo Cristo si è formato nel grembo della Vergine; come nell’Eucaristia ci possono essere gli accidenti senza la materia.
Ma queste sono cose risapute. Altre le questioni che ritengono degne dei teologi grandi e illuminati – così li chiamano. Quando se le trovano di fronte si esaltano:“Qual è l’istante della generazione divina? Ci sono più filiazioni in Cristo? È sostenibile la proposizione “Dio Padre odia il Figlio”? Avrebbe potuto Dio assumere figura di donna, di demonio, di asino, di zucca, di pietra? In caso affermativo, come la zucca avrebbe potuto predicare, fare miracoli, essere messa in croce? Che cosa avrebbe consacrato Pietro, se avesse consacrato mentre Cristo pendeva dalla croce? E poteva Cristo, in quel medesimo tempo, essere chiamato uomo? Infine, dopo la resurrezione, potremo mangiare e bere?”. Della fame e della sete, infatti, costoro si preoccupano fino da ora. Innumerevoli poi le sottigliezze, anche molto più sottili di queste, circa le nozioni, le relazioni, le formalità, le quiddità, le ecceità, che sfuggirebbero agli occhi di tutti, fatta eccezione di un novello Linceo capace di vedere nelle tenebre più profonde anche le cose che non sono in nessun luogo. Aggiungi sentenze così paradossali che i famosi oracoli stoici, detti appunto paradossi, sembrano al confronto luoghi comuni dei più rozzi e banali. Per esempio, che accomodare una volta la scarpa di un povero nel giorno del Signore ? delitto pi? grave che strangolare mille uomini; che dire una volta tanto una sola bugia, per quanto piccina, è più grave che lasciare andare in malora il mondo intero con tutta la sua dovizia di cose utili e belle. A rendere ancora più sottili queste sottilissime sottigliezze ci sono le tante vie battute dagli scolastici, ché usciresti prima dai labirinti che non dalle oscure tortuosità di realisti, nominalisti, tomisti, albertisti, occamisti, scotisti; e non ho nominato tutte le scuole, ma solo le principali.
In tutte c’é tanta erudizione, tanta astrusità, che, secondo me, persino gli Apostoli, se si trovassero a dover discutere con questi teologi di nuovo genere, avrebbero bisogno di un secondo Spirito Santo. Paolo poté dimostrare la sua fede, ma quando dice che “la fede ? sostanza di cose sperate, e argomento delle non parventi”, dà una definizione manchevole dal punto di vista dottrinale. Proprio Paolo, che in modo eccellente fece professione di carità, ne dette, nel capitolo tredicesimo della prima epistola ai Corinzi, un’analisi ed una definizione difettose in sede dialettica. Gli Apostoli, certamente, celebravano l’Eucaristia con la dovuta pietà. Non credo però che, interrogati sul termine A QUO e sul termine AD QUEM, sulla transubstanziazione, sull’ubiquità di un medesimo corpo; sulla differenza tra il corpo di Cristo in cielo, sulla croce e nel sacramento dell’Eucaristia; sull’istante in cui avviene la transubstanziazione, dovuta com’è ad una formula composta di più parole distinte, e quindi a una quantità discreta in divenire: non credo, ripeto, non credo che, nel discutere e nel definire, gli Apostoli avrebbero raggiunto la sottigliezza degli scotisti. Essi avevano conosciuto la madre di Gesù; ma chi di loro dimostrò, con l’ineccepibile metodo filosofico dei nostri teologi, come rimase immune dalla macchia del peccato di Adamo? Pietro ha ricevuto le chiavi, e le ha ricevute da colui che non le darebbe a un indegno; e tuttavia non so se avrebbe capito – certo non ne ha mai colto la sottigliezza – la questione del come possa possedere la chiave della scienza anche chi non ha la scienza. Gli Apostoli battezzavano in ogni luogo; tuttavia non hanno mai insegnato quale sia la causa formale, materiale, efficiente e finale del battesimo, né mai hanno fatto menzione del suo carattere delebile e indelebile. Gli Apostoli adoravano, sì, Dio, ma in spirito, attenendosi unicamente al principio evangelico: “Dio è spirito, e chi lo adora deve adorarlo in spirito e verità”. Non pare tuttavia sia stato ad essi ben chiaro che dobbiamo adorare Cristo allo stesso modo, sia in persona che in una sua immagine scarabocchiata col carbone sul muro, purché vi appaia con due dita levate, i capelli lunghi e tre raggi nell’aureola che gli cinge la nuca. Come si possono cogliere queste finezze, se prima non ci si è dedicati anima e corpo, per almeno trentasei anni, alla fisica e alla metafisica di Aristotele e di Duns Scoto? Allo stesso modo gli Apostoli parlano della grazia, ma non fanno mai distinzione fra grazia gratuita e grazia gratificante. Esortano alle opere buone, ma non distinguono fra opera operante e opera operata. Dappertutto insistono sulla carità, ma non distinguono fra carità infusa e carità acquisita, né spiegano se sia sostanza o accidente, cosa creata o increata. Detestano il peccato, ma possa io morire se sono riusciti a definire cosa sia quello che diciamo peccato; per questo avrebbero dovuto formarsi alla scuola degli scotisti. L’insegnamento di Paolo può essere preso come punto di riferimento per giudicare di tutti gli Apostoli; ebbene, io non potrei mai indurmi a credere che egli avrebbe così spesso condannato le questioni, le discussioni, le genealogie e quelle che chiamava logomachie, se fosse stato un esperto nell’argomentare. E sì che le dispute dei suoi tempi erano senz’altro roba da ridere in confronto alle sottigliezze dei nostri maestri che potrebbero dare punti a Crisippo.
Anche se poi questi maestri, nella loro grande modestia, quando gli Apostoli hanno scritto una cosa in forma disadorna, e, certo, non magistrale, non la condannano, ma ne offrono un’accettabile interpretazione. Quest’onore tributano in parte all’antichità, in parte all’autorità degli Apostoli. Del resto, sarebbe stata, per Ercole, una bella ingiustizia pretendere la conoscenza di cose tanto difficili da chi non ne aveva mai sentito far parola dal maestro. Se però la cosa si verifica in Crisostomo, in Basilio, in Girolamo, ritengono sia sufficiente annotare: “affermazione respinta”. Eppure si tratta di autori che confutarono i pagani, i filosofi, gli Ebrei, per loro natura ostinatissimi; lo fecero con la vita e coi miracoli più che con i sillogismi. D’altra parte nessuno dei loro avversari sarebbe stato in grado di capire neppure una delle “questioni quodlibetali” di Scoto. Al giorno d’oggi, qual mai pagano, qual mai eretico non si darebbe senz’altro per vinto di fronte a tante capillari sottigliezze? Bisognerebbe fosse tanto ignorante da non capirci nulla, o tanto privo di ritegno da scoppiare in sconce risate; o, infine, così esperto in quei medesimi cavilli da combattere ad armi pari: un mago di fronte a un mago, o un duello fra due avversari armati entrambi di una spada incantata: tutto si ridurrebbe a tessere e ritessere la tela di Penelope.
Secondo me i cristiani darebbero prova di un gran buon senso se, invece delle rozze armate che ormai da un pezzo combattono con esito incerto, inviassero contro i Turchi gli scotisti coi loro grandi schiamazzi, gli occamisti così ostinati, gli invitti Albertisti, e con essi l’intera banda dei sofisti: assisterebbero, credo, alla più divertente delle battaglie e a una vittoria mai vista prima. Chi, infatti, potrebbe essere tanto freddo da resistere ai loro strali infuocati? chi tanto torpido da non esserne stimolato? chi tanto avveduto da non restarne accecato?
Ma voi credete che i miei siano tutti scherzi. Posso capirlo: anche fra i teologi ve ne é di più dotti, che tengono a vile queste arguzie teologiche giudicandole futili. Ve ne sono che considerano un sacrilegio esecrando, e il massimo dell’empietà, parlare con linguaggio così volgare di cose tanto misteriose, oggetto d’adorazione più che di spiegazione; discuterne usando il profano argomentare dei pagani; definirle con tanta presunzione, e infangare la maestà della divina teologia con parole e concetti così poveri e addirittura sordidi.
Nel frattempo, però, gli altri rimangono pieni di sé, addirittura si battono le mani, e dediti notte e giorno alle loro piacevolissime cantilene non trovano neppure un minuto per leggere almeno una volta il Vangelo o le lettere di san Paolo. E, mentre nelle scuole vanno propinando ai discepoli simili sciocchezze, credono di essere loro a salvare da certa rovina la Chiesa universale sostenendola con la forza dei loro sillogismi, come il mitico Atlante sosteneva con le spalle il mondo. E vi pare poco gratificante por mano ai misteri delle Scritture plasmandole a piacere, ora in questa ora in quella guisa, come fossero cera? Esigere che le proprie conclusioni, già accettate da un certo numero di scolastici, siano ritenute più importanti delle leggi di Solone e addirittura da anteporre ai decreti dei pontefici? Se poi qualcosa non coincide a capello con le loro conclusioni esplicite e implicite, come fossero i censori del mondo, ne impongono la ritrattazione e, come se parlasse l’oracolo, sentenziano: “Proposizione scandalosa”; “proposizione irriverente”; “questa odora di eresia”; “questa suona male”. Per fare un cristiano non basta più il battesimo, né il Vangelo, né Pietro, né Paolo, né san Girolamo, né sant’Agostino; addirittura non basta neppure Tommaso, il principe degli aristotelici. Ci vuole anche il voto di questi baccellieri, così sottili nel giudicare. Chi, infatti, senza l’insegnamento di questi sapienti, si sarebbe mai accorto che non era cristiano chi riteneva ugualmente corrette queste due proposizioni: “vaso da notte, tu puzzi” e “il vaso da notte puzza”; oppure: “bolle la pentola” e “la pentola bolle”? Chi avrebbe liberato la Chiesa da così gravi errori, di cui nessuno si sarebbe mai accorto, se costoro non li avessero denunciati col sigillo della loro alta autorità? E non saranno al colmo della gioia mentre fanno tutto ciò? O quando ritraggono con molta esattezza il mondo infernale come se per molti anni fossero stati cittadini di quella repubblica? O quando fabbricano a capriccio nuove sfere celesti, creandone infine una più grande di tutte, più bella, perché le anime beate abbiano agio di passeggiarvi, di banchettare e anche di giocare a palla? A tal segno la loro testa è infarcita di una miriade di sciocchezze del genere che, secondo me, nemmeno quella di Giove era così gonfia quando, sul punto di partorire Minerva, chiese a Vulcano di tirare un bel colpo di scure. Perciò non vi stupite quando nelle pubbliche dispute li vedete con la testa così accuratamente imberrettata: se no, scoppierebbe.
A volte, anch’io rido del fatto che, quanto più il loro linguaggio è barbaro e rozzo, tanto più si credono grandi teologi, e in quel balbettare, comprensibile solo da un altro balbuziente, loro chiamano finezza d’ingegno quello che la gente non capisce. Negano infatti che sia compatibile con la dignità delle sacre lettere sottomettersi alle leggi della grammatica. Mirabile maestà, invero, quella dei teologi, se a loro soli è lecito costellare di spropositi il discorso, anche se poi hanno in comune questo privilegio con molti ignoranti. Infine si ritengono ormai vicinissimi agli Dei quando vengono salutati con venerazione quasi religiosa, e chiamati maestri nostri. Credono presente in quell’appellativo qualcosa di simile al tetragramma degli ebrei. Perciò considerano un’empietà non scrivere “Magister noster” tutto in lettere maiuscole. Se poi qualcuno, invertendo, dicesse “noster Magister”, di colpo annullerebbe la maestà del nome teologico.
*[Erasmo da Rotterdam, 1467 Rotterdam (Olanda) – 1536 Basilea (Svizzera)]